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TRADIZIONE & INNOVAZIONE

La seconda vita dello storico vino dei Benedettini

Completato il progetto del Crea di Arezzo: dal recupero dei vigneti autoctoni  alle antiche pratiche enologiche utilizzate dai monaci di Camaldoli, così è stato ricostruito un prodotto millenario
Vigneto Crea dell'Antico Monastero di Camaldoli

Assomiglia per colore e struttura ad un vecchio Chianti di 13,5 gradi il vino rosso che bevevano i Benedettini nel XIII secolo nel Monastero di Camaldoli, nell'Appennino toscano in provincia di Arezzo. A ricostruirne l'identità con un lungo lavoro durato diversi anni, è il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia (Crea) Viticoltura di Arezzo, che ha condotto un'indagine bibliografica e di campagna per riprodurre il vino con le varietà di vite e le tecnologie impiegate mille anni fa.
Una storia affascinante, come racconta Paolo Storchi direttore Crea-Viticoltura Arezzo, incentrata sulle antiche costituzioni dei Camaldolesi che prescrivevano che i monaci coltivassero la terra, accanto alla cura per la preghiera e la contemplazione.  "Saremo pronti a fine primavera quando stapperemo la prima bottiglia'', spiega Storchi precisando che si tratterà di una produzione per ora  limitata e numerata: "la cosa straordinaria sarà quella di gustare gli stessi sapori dei mille anni fa, un vero tuffo nel medioevo con tutti i sensi ''.
Lo studio è stato assai complesso per dare vita ad un prodotto dal colore rosso intenso e dalle caratteristiche aromatiche molto particolari. L'equipe del Crea nella prima fase del lavoro ha individuato e recuperato 21 varietà autoctone ancora presenti in piccoli vigneti 'relitto' della valle del Casentino su una superficie totale di appena 5 mila metri quadrati. Successivamente nel 2012 è stato creato un vigneto nell'azienda agricola del Monastero, esattamente a mille anni dalla fondazione della Comunità da parte di San Romualdo, riproducendo un vino in base alle ricette e alle pratiche enologiche in uso in epoca medioevale: vale a dire lunga fermentazione con lieviti autoctoni dell'uva, utilizzo di un tino di legno aperto, rifermentazione con granella di uva appassita e successivamente una maturazione per 18 mesi in una grande botte di rovere.
"Le tecnologie più moderne - spiega il ricercatore - sono state usate esclusivamente per le analisi chimiche relative al monitoraggio della fermentazione e della successiva maturazione del vino, in particolare per controllare l'evoluzione dei composti polifenolici e antiossidanti presenti fin dall'inizio in elevata quantità, grazie soprattutto all'apporto di uno specifico vitigno recuperato dal germoplasma locale''.
Uno studio che ha una doppia valenza, tiene a precisare ancora Storchi, sia dal punto storico ma anche di processo, assolutamente in linea con la missione dell'istituito di Arezzo, che nasce  nel 1908 come "Regia Cantina Sperimentale", collegata alla Cattedra ambulante di agricoltura, con il compito di effettuare ricerche in campo enologico ed eseguire analisi di mosti e vini per conto di Enti pubblici e privati.
Trasformato nel 1936 in "Istituto Enologico Toscano" vigilato dal Ministero dell'Agricoltura con la partecipazione degli Enti locali, 32 anni dopo entra a fare parte della rete degli Istituti Sperimentali del Ministero come sezione operativa periferica di quello di viticoltura di Conegliano, per entrare infine nel 2004 nella rete scientifica del Crea. Una storia dedicata da oltre 100 anni allo studio dei vitigni autoctoni, di sperimentazione delle tecniche e dei prodotti enologici, con particolare riferimento agli ambienti di coltivazione dell'Italia centrale.


 
 

Sabina Licci

 
 
 

PianetaPSR numero 52 - aprile 2016