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Riforma Pac

Così il greening rischia il paradosso ambientale

Estendere il set-aside ecologico alle colture permanenti ridimensiona il ruolo degli alberi contro i gas serra, ma anche di tutela del paesaggio e del suolo - Il caso dell'olivicoltura
 
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 Il greening, la parola chiave con la quale la proposta della Commissione Europea per la riforma Pac ha voluto enfatizzare il ruolo dell'agricoltura come produttrice di beni pubblici, è uno "strumento" fortemente criticato da molti Paesi membri, tra cui l'Italia. Non solo per le sue complicazioni applicative generali, ma anche per alcune palesi contraddizioni in alcuni settori.  Come si ricorderà, il regolamento proposto dalla Commissione vincola il 30% dei pagamenti diretti degli agricoltori, ad alcune pratiche ambientali ed ecologiche. L'agricoltore che dispone di almeno 3 ettari di seminativo dovrà praticare la diversificazione colturale  con almeno 3 colture differenti. Ovvero, la coltura principale non potrà coprire più del 70% della superficie a seminativo e la minore non meno del 5% della medesima superficie. Sono escluse dall'impegno le superfici interamente utilizzate a erbai, lasciate a maggese o coltivate a riso. Inoltre, ogni agricoltore dovrà mantenere almeno il 7% della superficie complessiva a seminativo e colture permanenti ad infrastrutture ecologiche quali terrazzamenti, fasce tampone, siepi, filari di alberi, stagni, aree afforestate attraverso i Psr, nonché aree lasciate a maggese.  Una proposta che di fatto escluderebbe la maggior parte delle colture virtuose in termini di sostenibilità del territorio e di cattura di CO2, colture ampiamente diffuse nell'agricoltura italiana come ulivo, vite e alberi da frutta.Questa proposta avrà sicuramente un'ampia serie di ricadute importanti su tutte le aziende agricole ad agricoltura specializzata in tutto il territorio nazionale. Infatti, ad esempio, un'azienda la cui area agricola è completamente dedicata al seminativo, si troverà costretta a rinunciare al 7% della sua superficie per il set aside ecologico. Ma, soprattutto, lo stesso avverrà nel caso di aziende la cui attività è legata a colture permanenti legnose come ulivo, vite o frutteto che dovranno rinunciare anche in questo caso al 7% dell'area piantata. E qui si potrebbe realizzare anche un cortocircuito tra l'ambizioso obiettivo del greening e il risultato finale in termini ambientali. In effetti, al di là di quelli che potranno essere gli sviluppi della proposta di regolamento e le sue possibili modifiche, appare chiaro come i benefici apportati all'ambiente e al territorio da questo genere di colture siano innegabili, soprattutto se il ragionamento avviene in termini ampi e tiene conto della specificità del territorio. Ma di fatto è necessario fare alcune considerazioni su alcune realtà che, nella maggior parte dei casi, a livello europeo possono essere considerate "eccezioni" mentre in Italia sono delle realtà ben più diffuse se non proprio la "regola". Il grafico che segue infatti evidenza in modo immediato le peculiarità del sistema agricolo italiano che in Europa, insieme alla Romania, è l'unico che mostra importanti assorbimenti di gas serra. Tali assorbimenti sono influenzati fortemente dall'arboricoltura da frutto e dalle specie legnose perenni.

 
Grafico 1 - Bilancio emissioni/assorbimento nei sistemi agricoli UE
Bilancio netto degli scambi di gas serra (Milioni di Tonnellate di CO2 eq.) per la categoria cropland EU-27 Anno di inventario 2009. Dati rielaborati National Inventory Reports 1990-2009 (NIR, 2011) - NB: Le barre in campo positivo indicano un bilancio a favore delle emissioni, quelle in campo negativo a favore degli assorbimenti

Premesso che la norma è vincolante e stringente (infatti se si accerta che un beneficiario non rispetta gli impegni del greening, il pagamento legato al greening è revocato in toto o in parte), non ci si può non chiedere se in alcuni casi non ci sia il rischio che siano più le perdite ambientali piuttosto che i benefici.
L'olivicoltura (così come la coltura delle specie legnose perenni da frutto) è forse uno dei settori che rischia maggiormente di soffrire per questa norma. Infatti, se può essere accettabile immaginare di ridurre del 7% i seminativi a favore di indubbi benefici ambientali, è più difficile capire nell'immediato quali possano essere i benefici di un'analoga riduzione di un'area piantata ad ulivi. All'olivicoltura (così come alla maggior parte delle specie legnose da frutto) sono associati indubbi benefici di carattere idrogeologico e un ben noto contributo di carattere paesaggistico. Inoltre, altro aspetto molto importante, è il contributo che queste specie danno nell'assorbimento dell'anidride carbonica.  Infatti, a differenza delle specie annuali o stagionali, le specie perenni, sebbene potate, hanno parti (il fusto e le radici) che continuano ad accrescersi e quindi ad aumentare nel tempo la quota di biomassa e di conseguenza di carbonio in essa stoccato.
Proprio in questi giorni si parla di come gli obiettivi del Protocollo di Kyoto si stiano avvicinando grazie anche all'aumento della superficie forestale in Italia e all'importante contributo che le specie arboree stanno dando in termini di assorbimento di CO2.  Uno studio pubblicato dal CNR di Bologna e dal Dipartimento delle Colture Arboree dell'Università di Palermo fornisce una stima di massima relativa al contributo che solamente gli ulivi danno sul territorio italiano in termini di assorbimento di anidride carbonica. Infatti, grazie alla consistente attività fotosintetica giornaliera (paragonabile a quella della vite o dell'actinidia) ed alla conseguente elevata fissazione del carbonio (quantificabile, come picco, in modo approssimativo in circa 64 kg per ettaro al giorno, nel mese di luglio), al netto delle emissioni naturali dovute ai processi respirativi delle piante e del suolo, l'ulivo mostra essere un grande assorbitore di CO2 anche in considerazione del fatto che è una coltura sempreverde e che la sua attività fotosintetica continua (ovviamente con tassi più ridotti) anche nel periodo autunno-invernale. Tale valore, generalizzato su tutto il territorio nazionale, considerando i circa 1.200.000 ettari di ulivo presenti in Italia, indica una fissazione parti a circa 200.000 tonnellate di CO2 all'anno, pari quasi al 4% del totale delle emissioni italiane. Va specificato che tale contributo al momento non può rientrare nei bilanci dei gas serra nazionali ai fini di Kyoto in quanto l'Italia non ha eletto l'agricoltura tra le attività opzionali. Ma svincolandosi dalla logica dei trattati ambientali e delle politiche del clima pensare che, estremizzando la situazione, il greening comporterebbe una riduzione del 7% degli assorbimenti di CO2 legati all'olivicoltura (senza poi considerare tutte le altre specie arboree da frutto), fa sorgere qualche dubbio sull'effettiva utilità in termini di benefici ambientali a trecentosessanta gradi di tale proposta.
 

Federico Chiani
f.chiani@ismea.it

 
 
 
 

PianetaPsr 9 - aprile 2012