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GAS SERRA

Impronta di carbonio a misura di azienda agricola

Messa  a punto su iniziativa della Rete Rurale (coordinamento Ismea) una metodologia che consente una valutazione del rapporto emissioni - assorbimento meno penalizzante per l'agricoltura

La definizione oggettiva di parametri volti a valutare l'impatto in termini di emissioni di gas serra connesse alla immissione sul mercato di beni alimentari è alla base di una costante crescita e diffusione delle certificazioni volontarie in ambito "Carbon Footprint". Fino ad oggi, la fase agricola, tuttavia, ha molto spesso partecipato passivamente ai processi di certificazione principalmente per due motivi: in primo luogo perché gli algoritmi di certificazione sono prevalentemente orientati e guidati dalle fasi a valle della filiera (distribuzione e/o trasformazione); il secondo motivo risiede nel fatto che la tipologia di analisi LCA (Life Cycle Assessment) e i principali software generalmente alla base di tali certificazioni, non simulano la fase agricola in modo dettagliato, ma presentano l'emissione di GHG di un prodotto agricolo primario come un unico dato generalmente utilizzato come input per i calcoli successivi relativi alla trasformazione in prodotto derivato. Questo approccio, quindi, non rappresenta correttamente ed esaustivamente le innumerevoli potenziali realtà agronomiche a cui il dato di partenza dovrebbe far  riferimento.
Un ruolo di maggiore protagonismo da parte del settore primario, quindi, non può che fondarsi su una solida base scientifica in grado di garantire la stretta connessione tra realtà analizzata e dato conseguente.  E' in questa direzione che ha lavorato il progetto Food Emissions, sviluppando una procedura di calcolo innovativa finalizzata alla stima del Carbon Footprint (CF), ossia l'emissione netta totale di CO2 e altri gas ad effetto serra (GHG, greenhouse gases), di un prodotto agricolo, o dell'attività di un'azienda, relativamente ai principali processi produttivi agricoli italiani.

 

Bilancio a livello di singola produzione

Bilancio a livello di singola produzione
 

In genere, il Carbon Footprint si basa sulla metodologia life cycle assessment, ossia una procedura che ha come fine il calcolo delle emissioni che si realizzano durante tutto il ciclo di vita di un prodotto: dall'estrazione delle materie prime allo smaltimento degli scarti.
Nello specifico, l'approccio metodologico della procedura vede come confine superiore del sistema il "cancello" dell'azienda agricola (in gergo tecnico "farm gate"). Ciò significa che con la presente metodologia si prendono in considerazione soprattutto le filiere che esauriscono le fasi produttive e di trasformazione nell'azienda agricola. Essa si centra, quindi, sull'analisi della fase di campo in cui viene prodotta la materia prima agricola e sulla fase di trasformazione nei casi in cui essa avvenga entro i confini  dell'azienda agricola, come spesso accade per olio e del vino. 
Il CF può quindi riferirsi al prodotto specifico finito ottenuto in azienda, più tipicamente olio o vino in bottiglia, verdura e frutta fresca, cereali in seme, oppure riferirsi eventualmente all'intera performance aziendale, nel caso un'azienda tratti più prodotti ed abbia interesse a valutare il proprio impatto ambientale. Il confine qui definito è quindi specificamente proposto per permettere alle aziende agricole di attribuire un CF ai prodotti smerciati. Le motivazioni principali per cui un'azienda agricola può trovare vantaggioso un tale strumento di calcolo sono:

  • Comunicare correttamente il CF dei propri prodotti a terzi su base volontaria o su richiesta esplicita;
  • Intraprendere, una volta calcolato il CF, un percorso virtuoso di ottimizzazione di processo al fine di ridurre le proprie emissioni, identificando i punti della filiera di produzione con maggiori impatti e possibilità di miglioramento e riduzione delle emissioni.

Da queste motivazioni generali possono discendere effettivi vantaggi per l'azienda quali:

  • Consolidare l'immagine dell'Azienda nei confronti del consumatore o dell'acquirente;
  • Differenziare il proprio prodotto da altri sul mercato;
  • Migliorare le performance ambientali aziendali;
  • Identificare i processi con maggiori emissioni di CO2 ,i relativi costi e i potenziali risparmi.

Per determinare il Carbon Footprint di un prodotto agroalimentare (IAGRICO2 prodotto), tutte le emissioni di CO2e vanno riferite all'unità funzionale del prodotto prescelto (es. bottiglia di vino, kg di frutta fresca, kg di granella di grano duro). La quantità di prodotto finale (QPF) a cui fare riferimento come unità funzionale è quella che viene dichiarata dall'azienda nell'inventario come produzione riferita al periodo di tempo in esame. Quest'ultimo può essere il ciclo colturale o la produzione annua. Il Carbon Footprint del prodotto (IAGRICO2  prodotto) sarà, quindi, pari alla somma di tutti i flussi di GHG relativi a tutte le diverse fasi di produzione, espressi in CO2 e diviso per la quantità QPF. Il CF sarà, dunque, espresso in kg CO2e/kg prodotto finale o kg CO2e/L prodotto finale o kg CO2e/unità di prodotto finale (es. bottiglia).

 

Bilancio di carbonio a livello di azienda agricola

Bilancio a livello aziendale
 

La metodologia rappresenta un'innovazione in ambiti ad oggi trascurati, che mostrano invece di svolgere un ruolo fondamentale nell'assorbimento del carbonio. Infatti IAGRICO2 si adatta al singolo caso analizzato, ne stima gli assorbimenti e le emissioni evitate alleggerendo notevolmente il carico di emissioni valorizzando con rigore metodologico aspetti fondamentali:

  • Terreni adeguatamente trattati e le biomasse permanenti (fusto e radici), quali ad esempio quella delle piante legnose (vite, ulivo, frutta), rappresentano dei sequestri di carbonio nel sistema agricolo che possono bilanciare le emissioni di GHGs. Il carbonio sequestrato nella biomassa, che viene preso in considerazione, è esclusivamente quello stoccato nelle strutture "permanenti legnose", ossia nel tronco, rami principali e nelle radici di colture legnose permanenti o semipermanenti, quali alberi da frutto, vite ed olivo. Si esclude il C che va nelle parti che vengono recise (tralci, foglie e frutto), in quanto il materiale che viene tagliato è considerato, secondo la metodologia IPCC (2006), un'emissione dal momento stesso del taglio.
  • In diversi casi, il prodotto primario della coltivazione, oltre a fornire materia prima per la produzione del prodotto finale, può fornire altri materiali, che hanno una loro collocazione sul mercato e che non vengono, quindi, considerati e trattati come scarti. I coprodotti, nel LCA, vengono scomputati dal peso finale ambientale del prodotto considerato. Lo scomputo viene quindi calcolato o quantificando il CF della produzione di mercato equivalente (CFeq) a quella che il coprodotto va a sostituire, oppure mediante allocazione economica. Il coprodotto rappresenta, quindi, nel primo caso un'emissione negativa che può essere sottratta all'emissione totale.
  • I residui biologici della coltivazione, se quantificati, possono rappresentare un'occasione di risparmio energetico (e quindi di CO2 fossile) e di ulteriore stoccaggio di C nel terreno. 
  • La quantificazione, nell'ambito dell'azienda agricola, di attività volontarie di riforestazione/afforestazione che rappresentano azioni di mitigazione del CF con impatto positivo per l'ambiente su più fronti.

Per fare un rapido esempio, nel report del progetto è stato presentato un caso studio che analizza un'azienda vitivinicola che ha un ettaro di superficie destinato a bosco. Senza entrare nel dettaglio dei laboriosi calcoli dell'LCA, è sufficiente guardare la seguente tabella dove vengono presentati tre scenari di conteggio di emissioni di CO2 eq. associate alla produzione di una bottiglia di vino:

  1. Senza bilanciamento di C sequestrato in campo (suolo, biomassa del vitigno)
  2. Con il bilanciamento di C sequestrato in campo
  3. Con il bilanciamento di C sequestrato in campo ed in azienda grazie all'area boschiva.

In sintesi, la Tabella permette di visualizzare immediatamente come la scelta della metodologia influenzi concretamente il risultato finale. Gli scenari B e C oltre a contemplare azioni agronomiche possibili in un'azienda agricola, mostrano come queste abbiano un significativo impatto mitigativo rispetto allo scenario A. Risulta quindi evidente l'importanza di inserire nel calcolo del CF di un prodotto agronomico  (supportando tale scelta con argomentazioni scientifiche solide) aspetti tradizionalmente trascurati che però incidono nel bilancio finale.
L'esempio esposto nel rapporto è stato volutamente realizzato sulla vite proprio per enfatizzare quanto il considerare gli assorbimenti di anidride carbonica e, soprattutto, lo stoccaggio nelle parti non soggette a potatura, possa essere di fondamentale importanza per restituire valori di emissioni scientificamente solidi ed al tempo stesso vantaggiosi rispetto agli scenari usuali.
E' pur vero che c'è una gran parte dell'agricoltura italiana che non stocca carbonio (i seminativi, gli ortaggi, ecc.) ma è peculiare del panorama agricolo italiano una grande abbondanza di vite, ulivo e frutteti e pertanto è più che indispensabile valutarne gli aspetti vantaggiosi. A maggior ragione se si ritiene opportuno compensare il più possibile tutte le attività agricole esclusivamente emissive.
L'aspetto concretamente innovativo di questa metodologia è l'importanza che avrebbe su scala nazionale il conteggio, come già detto, mai effettuato sinora, degli assorbimenti da parte di molte specie tipiche e peculiari dell'agricoltura italiana.
La quantificazione dell'impronta di carbonio quindi può essere vista a diversi ingrandimenti; infatti si può allargare oltre che a livello di azienda anche al livello di distretto agricolo. L'idea fondamentale è che, ad ogni livello, aumenta lo spazio disponibile per operare azioni di bilanciamento/mitigazione ed il livello di organizzazione e condivisione.

 
  • Al livello di Carbon Footprint di prodotto, le azioni che si possono intraprendere per ridurre il bilancio netto di emissioni di CO2 e sono relativamente poche e focalizzate principalmente sulla fase di gestione agronomica.
  • Al livello di Carbon Footprint di azienda, le azioni che si possono intraprendere includono anche azioni su superfici aziendali altre da quelle relative alla coltivazione dei prodotti agricoli.
  • A livello di distretto, le possibilità crescono ulteriormente. Inoltre la CO2 e sequestrata od evitata al livello aziendale e di distretto può essere allocata a più prodotti, quindi al livello 1, con modalità e nella quantità ritenuta più opportuna in base a scelte aziendali o di distretto; scelta quest'ultima derivante dall'azione partecipata degli stakeholders, ossia tutte le parti interessate, aziende produttrici in primis.

In conclusione, volendo sintetizzare l'impatto dello studio effettuato e dei risultati raggiunti, l'aspetto concretamente innovativo di questa metodologia è l'importanza che avrebbe su scala nazionale il conteggio, come già detto, mai effettuato sinora, degli assorbimenti da parte di molte specie tipiche e peculiari dell'agricoltura italiana.
Non va infatti dimenticata l'importanza che l'agricoltura ha nel conteggio nazionale delle emissioni e il ruolo che quindi riveste, anche su scala globale, come attore fondamentale per il bilancio nazionale che ogni anno l'Italia è tenuta a comunicare alla comunità scientifica europea ed internazionale anche (ma non solo) a seguito degli accordi del Protocollo di Kyoto.
In un momento delicato, in cui è necessario capire se l'agricoltura è un settore produttivo su cui puntare per agire nell'ambito dei crediti di carbonio, adottare una metodologia che prenda effettivamente in considerazione lo stoccaggio (su basi consolidate di letteratura scientifica) fornisce un vantaggio per le Istituzioni che hanno il compito di occuparsene.

 
 
 

Simona Castaldi
Federico Chiani
Mauro Moresi

 
 
 

PianetaPSR numero 30 - marzo 2014