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EMISSIONI

Filiera carne, come ridurre l'impronta di carbonio

Una spin-off dell'Università di Siena misura il risparmio di CO2 di alcuni allevamenti estensivi presidi Slow Food: carte vincenti sono i mangimi aziendali, niente fertilizzanti, lavorazione in proprio

Negli ultimi anni è diventato sempre più importante per le aziende agricole informare il consumatore delle iniziative prese per ridurre l'impatto ambientale della propria attività: che si parli di rapporti ambientali o di etichette intelligenti, la qualità da sola non basta più soprattutto quando è il momento di scardinare le porte di alcune nicchie di mercato in Italia e all'estero, costituite da consumatori sempre più attenti alla responsabilità sociale e ambientale delle aziende. 
Così, se proprio in uno degli ultimi numeri di PianetaPsr vi abbiamo dato conto di un importante progetto messo in campo da Ismea  per quantificare l'effetto delle pratiche agronomiche e dei sistemi agricoli sullo stock di carbonio nel suolo, in questo numero ci sembra interessante segnalare l'iniziativa avviata da Slow Food in collaborazione con  INDACO2, una Spin-Off dell'Università di Siena, per calcolare l'impronta di carbonio di alcuni allevamenti - presidi Slow Food. 
Il team di ricercatori ha misurato gli impatti ambientali generati dalle produzioni di un hamburger di Razza Maremmana, di un prosciutto di Mora Romagnola e di una forma di "Vastedda" della Valle del Belice, utilizzando una serie di indicatori di sostenibilità. In questo modo, è stato possibile studiare l'insieme di tutti i processi che partecipano alla produzione e costituiscono il ciclo di vita del prodotto, ovvero l'intera filiera, dalla produzione dei mangimi, alle pratiche di svezzamento e allevamento, fino al prodotto finito.
L'indicatore di sostenibilità preso in esame è l'impronta di carbonio, ovvero la stima delle emissioni di gas a effetto serra in atmosfera, calcolate in unità di CO2 equivalente per unità di prodotto. Questo valore indica il livello di sostenibilità di una produzione rispetto a problematiche ambientali di scala globale come l'effetto serra e i cambiamenti climatici.
Possiamo dire subito che le emissioni generate dagli allevamenti dei tre allevamenti presi in esame  sono in generale più basse rispetto ad allevamenti convenzionali e che incidono positivamente in particolare la produzione "in house" dei mangimi, i sistemi di allevamento a stato semibrado (risparmio di energia quindi per il condizionamento climatico e la ventilazione del bestiame) la non utilizzazione di fertilizzanti e il riutilizzo delle deiezioni, la lavorazione in azienda dei prodotti. A bilancio in "negativo" (se di negativo in questo caso si può parlare) sono le emissioni biogeniche (ovvero tutte le emissioni  legate alle fermentazioni enteriche e alla gestione delle deiezioni) che dipendono da un tempo medio di vita degli animali più lungo rispetto ad allevamenti convenzionali.   
Partiamo dall'allevamento di razza bovina autoctona della maremma di Manuela Menichetti località S. Barbera Manciano, Grosseto. L'azienda ha un'estensione di 183 ettari, di cui 141 a pascolo, a loro volta suddivisi in 90 ettari di bosco e 51 di seminativo per erbai.  Parliamo di 33 capi adulti e 30 vitelli l'anno.  Nella fase della coltura per i mangimi, l'azienda è autosufficiente per l'alimentazione degli animali. Non utilizza prodotti chimici per la fertilizzazione, per la quale riutilizza le deiezioni della stalla. Gli impatti sono dovuti soprattutto a consumo di diesel e pochissima elettricità per schiacciare l'orzo. La seconda fase, quella dell'allevamento, è quella che impatta di più, a causa delle fermentazioni enteriche e delle deiezioni, soprattutto perché, rispetto ad un allevamento convenzionale, l'animale vive più a lungo. Sulla terza fase, quella della trasformazione, incide positivamente il fatto che il 60% della carne venga venduta localmente. Bilancio: per produrre un hamburger di Razza Maremmana, la Carbon Footprint complessiva (includendo le emissioni biogeniche) è 3.2 kg CO2-eq, contro 4.6 CO2-eq di un hamburger da allevamento convenzionale. In altre parole, consumando un Marburger si risparmiano 1.4 kg CO2-eq, ovvero fino ad un 30% di emissioni evitate.
Il secondo caso è quello di un allevamento di razza suina mora romagnola, l'azienda agricola Zavoli di Saludecio - Rimini. L'estensione è di circa 30 ettari, di cui 4,5 a pascolo (3 ettari di bosco).  Si tratta di 77 capi l'anno.  I mangimi vengono prodotti prevalentemente in azienda, mentre mais e pellet vengono acquistati. Anche qui, rispetto agli allevamenti convenzionali, l'animale vive più a lungo. La lavorazione e parte della stagionatura (ultimi 10 mesi) avvengono in azienda. Considerando un prosciutto stagionato di 10 kg di Mora Romagnola, Considerando  anche le emissioni biogeniche, un prosciutto di Mora Romagnola ha una Carbon Footprint di 82.3 kg CO2-eq contro 89.5 kg CO2-eq di un prosciutto derivante da un allevamento convenzionale (risparmio dell'8%).  Le emissioni evitate in questo caso sono pari a 7.2 kg CO2-eq.
Ultimo caso preso in considerazione (ma anche quello dove il risparmio di C02 è più evidente), quello di un allevamento di razza ovina autoctona della valle del Belice, l'azienda Cucchiara di Salemi in provincia di Trapani. Una superficie a pascolo di 52 ettari, di cui 2 a bosco, 6 incolto, 20 vigneto/uliveto, 4 a fieno, 20 a cereali. Si parla di 400 agnelli l'anno. L'alimentazione è a fieno, orzo, favina e grano prodotti in azienda. Il latte munto è subito lavorato in tini di legno in azienda. Gli impatti per la produzione di una forma da 500g di Vastedda della Valle del Belìce sono molto bassi: includendo le emissioni biogeniche, la Carbon Footprint di una Vastedda è di 2.13 kg CO2-eq (contro 5.32 kg CO2-eq  di un formaggio prodotto da pecore allevate in modo intensivo). Consumando una forma da 500g di Vastedda, rispetto ad un formaggio di pecora generico, si risparmiano 3.2 kg CO2-eq, che equivalgono ad un 60% in meno.

 
 
 
 
 
 
 

Andrea Festuccia

PianetaPSR numero 37 - novembre 2014