Negli ultimi anni si è registrata una forte crescita delle vendite di alimenti caratterizzati da comunicazioni, spesso accompagnate da certificazioni di parte terza, relativi a un ridotto impatto dell'impronta ecologica. Tra questi i prodotti biologici ma non solo. Molteplici le ragioni: da un lato, il sostegno finanziario in ambito PAC e i fondi del PSR, dall'altro il consolidamento di consumi valoriali che trovano anche nelle produzioni a basso impatto ambientale un centro catalizzatore di percezioni sensibili alla dimensione ambientale; infine, certamente l'interesse della Grande Distribuzione Organizzata verso l'allocazione di spazi commerciali dedicati all'offerta di prodotti agricoli e alimentari certificati in conformità ai modelli più sofisticati
La segnalata crescita del mercato porta con sé ed inevitabilmente un aumento della litigiosità tra gli attori del mercato: non tanto tra imprese manifatturiere e imprese della distribuzione, nei cui rapporti il ricorso giurisdizionale è negletto a fronte del preponderante potere contrattuale di una delle parti, quanto piuttosto nei rapporti tra le imprese certificate in biologico e i rispettivi organismi di controllo, siano essi meri fornitori di servizio ovvero operanti su delega dell'autorità pubblica. Il contenzioso in parola è gravato da un quadro normativo complesso, affastellato di riforme a vario livello, concentratesi e sovrappostesi in un ristretto intervallo temporale e che, nel caso della normativa italiana, non sembrano sempre sorrette da scelte nitide né espresse con la dovuta chiarezza redazionale.
La qualificazione di un prodotto agroalimentare come rispondente a determinati canoni (standard) prefissati per legge determina il quadro giuridico delle responsabilità per usi non consentiti o peggio dolosamente perpetrati con intenti frodatori. Da questo punto di vista l'esempio del "biologico" è utile per mettere in prospettiva l'uso di termini di conformità al Sistema di Qualità Nazionale di Produzione Integrata. Come noto nel settore dei prodotti "da agricoltura biologica" vigono regole giuridiche definite da un quadro normativo e regolamentare specifico particolarmente articolato. Infatti, nella comunicazione di un prodotto alimentare [1] è consentito riportare termini riferiti al metodo di produzione biologico, quali ad esempio biologico e i rispettivi derivati e abbreviazioni, quali bio e eco, solo quando l'alimento così caratterizzato è stato ottenuto conformemente alle norme stabilite dal regolamento n. 834/2007/CE [2] .
In estrema sintesi queste condizioni sono: (i) sottoposizione dell'operatore a un sistema di controllo secondo le prescrizioni dei regolamenti comunitari e della normativa nozionale applicabile; (ii) attestazione di conformità rilasciata dall'ente incaricato al controllo e certificazione, attestazione che oggi è a tutti gli effetti una attestazione ufficiale ai sensi del regolamento n. 2017/625/UE [3] ; (iii) rispetto delle prescrizioni di etichettatura dei prodotti biologici previste dalle fonti verticali [4] .
Da questa premessa consegue che i prodotti biologici sono un esempio di produzione agroalimentare di qualità regolamentata, in quanto rappresentano filiere di produzione e commercializzazione sottoposte a cogenti regole tecniche di produzione assistite da un sistema di controllo e certificazione specifico. Pertanto i prodotti da agricoltura biologica sono assimilabili ai regimi di qualità dei prodotti con denominazione di origine protetta (D.O.P.) inclusi i prodotti vitivinicoli, prodotti ad indicazione geografica protetta (I.G.P.) inclusi i prodotti vitivinicoli e delle Specialità tradizionali garantite (S.T.G.), disciplinata del Regolamento n.1151/2012/UE [5] . Allo stesso insieme, stando a un Decreto del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali del 16 febbraio 2012 [6] apparterrebbero anche le carni bovine con etichettatura facoltativa, carni di pollame con etichettatura volontaria.
Più recentemente, alla luce della implementazione dell'art. 2 della Legge n. 4 del 3 febbraio 2011 [7] per mezzo del DM 4890/2014 - Sistema di qualità nazionale di produzione integrata - SQNPI, anche i prodotti muniti del marchio collettivo "Sistema di Qualità Nazionale di Produzione Integrata (SQNPI)", marchio registrato dal Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali, sembrano possedere analoga natura.
Può essere utile segnalare che il Sistema di qualità nazionale di produzione integrata è definito sul piano normativo interno come "lo strumento per garantire la gestione delle tecniche agronomiche, di difesa fitosanitaria e controllo delle infestanti, di post raccolta, zootecniche e di trasformazione fino all'immissione al consumo, mediante modalità capaci di assicurare una qualità del prodotto finale significativamente superiore alle norme correnti in termini di sanità pubblica, salute delle piante, benessere animale e tutela ambientale".
Nella disciplina di settore si rinviene quindi una certa ambivalenza tra aspetti di tutela ambientale e aspetti connessi a un consumo di alimenti "più" sicuri o, per lo meno percepibili come tali, che finisce per favorire indirettamente una comunicazione commerciale talvolta deformante la percezione diffusa da parte dei consumatori.
In ogni caso, in quanto il segno di conformità connesso a norme generali volte a tutelare beni pubblici individuati dai rispettivi regolamenti UE (patrimonio culturale nel caso delle DOP-IGP-STG, promozione di sistemi sostenibili nel caso del biologico [8] ), sussiste un particolare interesse alla tutela della fede pubblica, definita come la fiducia che la collettività ripone nella genuinità e veridicità di determinati contrassegni rilevanti per la vita sociale al pari delle monete, carte di pubblico credito, valori di bollo, biglietti di pubbliche imprese di trasporto, ed ai quali l'ordinamento giuridico riconosce certezza e valore probatorio per la particolare funzione economica che svolgono nelle relazioni giuridiche pubbliche e private (il c.d. traffico giuridico).
Da questa premessa deriva che diverse norme penali possono risultare rilevanti nella conduzione di attività di produzione e commercio di prodotti alimentari presentati come conformi al canone legale: da un lato le disposizioni del codice penale in tema di falso in sigilli e affini, [9] dall'altro le varie ipotesi dei delitti di frode. A quest'ultimo riguardo, sia la giurisprudenza di merito sia di legittimità è oramai usa collocare condotte relative all'impiego sine titulo del termine o del logo del biologico nell'ambito dei delitti di cui all'art. 515 c.p. o art. 517 c.p. nella forma aggravata dell'art. 517-bis c.p. [10]
In forza del quadro nazionale in tema di SQNPI dunque, pur trattandosi di norme non riferibili a quadro giuridico dell'UE, il relativo segno di conformità è presidiato da norme anche penali che, in ipotesi, possono coinvolgere la responsabilità amministrative dell'ente (D.lgs. n. 231/01) nonché quella dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio che, a vario titolo, operano nel relativo sistema di controllo e vigilanza.
La comunicazione del prodotto alimentare [11] è disciplinata da due insiemi normativi: l'uno, di natura generale, applicabile a tutte le comunicazioni commerciali in quali tali, l'altro, specifico ratione materiae, attinente ai prodotti alimentari.
Appartengono al primo insieme le norme sulla concorrenza sleale (art. 2598 e ss. del codice civile), le norme sulla pubblicità ingannevole e comparativa (D.Lgs. 145/2007), per quel che attiene ai rapporti business-to-business, e, con riferimento alla comunicazione rivolta al consumatore, la disciplina delle pratiche commerciali scorrette, contenuta nel Codice del Consumo (art. 18 e ss.).
Il secondo insieme normativo è basato sul Regolamento (UE) n. 1169/2011 e gli altri atti collegati o connessi; è bene sottolineare che le violazioni di queste disposizioni si pongono come elemento autonomamente sanzionabile, ove una sanzione sia prevista da una fonte legislativa, ma può, in certi casi, porsi altresì come elemento di integrazione di una pratica commerciale scorretta, di una fattispecie di pubblicità ingannevole o, ancora, di un fatto illecito rilevante come concorrenza sleale ai sensi della sopra richiamata disciplina generale. Per altro verso è stato osservato che la violazione delle norme settoriali rappresenta la misura con cui valutare il contrasto con lo standard di competenza e attenzione che i consumatori ragionevolmente hanno diritto di attendersi.
Pubblicità, presentazione ed etichettatura dei prodotti alimentari, oltre che mezzo di comunicazione verso il consumatore, sono al tempo stesso strumento di concorrenza tra gli operatori professionali. In questo ultimo senso si comprende come la disciplina sulla concorrenza sleale, predisposta dal codice civile (art. 2598 ss. c.c.), possa venire in considerazione.
Si tratta di disposizioni che enucleano categorie di atti illeciti, appunto di concorrenza sleale, che possono dare origine a conseguenze giuridiche importanti: oltre al risarcimento del danno, l'ordine di inibizione della condotta (blocco della commercializzazione di un prodotto, ad esempio) e, se del caso, la pubblicazione della sentenza.
Secondo l'articolo 2598 c.c. vi sono tre tipologie di azioni vietate in quanto considerate "concorrenza sleale". La norma delinea, ai nn. 1 e 2, le fattispecie tipiche, [12] e riserva, al n. 3, la clausola generale della correttezza professionale, quale regola di chiusura a cui gli imprenditori devono attenersi per evitare di danneggiare i concorrenti e compiere atti di concorrenza sleale.
Quest'ultima disposizione fissa una nozione ampia di concorrenza sleale, ancorandola al concetto della "correttezza professionale" e della attitudine dannosa nei confronti del concorrente dell'atto controverso.
Ad esempio, l'appropriazione di pregi è una fattispecie considerata al n. 2 dell'articolo 2598 c.c.: l'illecito sussiste nella misura in cui la pratica comporti uno sviamento della clientela, alimentando nel pubblico l'errata convinzione che il prodotto pubblicizzato abbia pregi in realtà inesistenti. Il messaggio non veritiero sarà illecito ove sia tale da "ingannare il consumatore medio con false affermazioni specifiche, a nulla rilevando le generiche vanterie iperboliche". La mezza verità, se e in quanto insuscettibile di falsare il comportamento economico, resta insignificante rispetto alla disposizione ora in commento.
L'uso indebito di denominazioni o indicazioni d'origine comporta a sua volta una informazione ingannevole con la conseguente appropriazione di un pregio. Si tratta di un orientamento giurisprudenziale risalente ma recentemente ripreso dal Tribunale di Alba con riferimento a una pubblicità di un olio che lasciava surrettiziamente e falsamente intendere che il prodotto provenisse da una determinata zona geografica, particolarmente vocata alla produzione di olive di qualità e di particolare importanza per il consumatore, per la notorietà e l'apprezzamento di cui gode la zona rivendicata .
La terza categoria di illecito concorrenziale è data, come già anticipato, dalla clausola generale di chiusura per la quale ogni altro atto in contrasto con la correttezza professionale è atto di concorrenza sleale.
Il concetto di correttezza professionale è ricostruito in dottrina facendo riferimento alla morale comune professionale condivisa (criterio deontologico) o alla prassi consuetudinaria di una data attività commerciale (criterio statistico). Non è da escludere che alla definizione dello standard di riferimento possano concorrere anche le regole del codice di autodisciplina .
La disciplina della pubblicità ingannevole e comparativa si applica ai rapporti tra i professionisti, c.d. business-to-business, intendendosi con professionista qualsiasi persona fisica o giuridica che agisce nel quadro della sua attività commerciale, industriale, artigianale o professionale. Laddove il rapporto veda, come parte, il consumatore, si applicheranno invece le diverse disposizioni del Codice del consumo, in particolare quelle sulle pratiche commerciali.
In termini generali, la disciplina ora in commento esige che la pubblicità sia palese, veritiera e corretta. La c.d. "trasparenza della pubblicità" si traduce nel che essa sia chiaramente riconoscibile come tale, con espresso divieto della pubblicità subliminale. Il fenomeno della pubblicità occulta è chiaramente vietato e recentemente il tema si è riproposto relativamente al diffondersi dell'influencer marketing.
Regole speciali valgono per la pubblicità ingannevole e per la pubblicità comparativa.
Per "pubblicità ingannevole" si intende "qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione è idonea ad indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, sia idonea a ledere un concorrente".
Esempio: affermazioni poste in termini assoluti ma prive di fondamento scientifico, che lascino intendere che l'assunto sia universalmente condiviso dalla comunità scientifica, senza fornire riferimenti bibliografici, è da ritenersi ingannevole.
Il D.Lgs. 145/2007, oltre a fissare i requisiti di liceità della pubblicità in generale e della pubblicità comparativa, affida all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) il ruolo di regolatore del mercato e di autorità competente all'irrogazione delle sanzioni amministrative.
Quest'ultima può agire d'ufficio o su istanza di ogni soggetto o organizzazione che ne abbia interesse, inibendo la continuazione della pubblicità ingannevole e comparativa, ordinando la eliminazione degli effetti, e disponendo l'applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria da 5.000 euro a 500.000 euro, tenuto conto della gravità e della durata della violazione. Nei casi di "particolare urgenza" tale pubblicità può essere sospesa provvisoriamente con provvedimento motivato. Per lo svolgimento dei suoi compiti, l'AGCM può avvalersi della Guardia di Finanza che agisce con i poteri ad essa attribuiti per l'accertamento dell'imposta sul valore aggiunto e dell'imposta sui redditi.
La competenza affidata all'AGCM non pregiudica la giurisdizione del giudice ordinario in materia di atti di concorrenza sleale, a norma dell'articolo 2598 del codice civile, nonché, per quanto concerne la pubblicità comparativa, in materia di atti compiuti in violazione della disciplina sul diritto d'autore, e del marchio d'impresa, così come in tema di denominazioni di origine riconosciute e protette in Italia e di altri segni distintivi di impresa.
Il Codice del Consumo appronta la disciplina delle pratiche commerciali scorrette, applicabile ai rapporti tra professionista e consumatore. Per "pratica commerciale tra professionisti e consumatori" (o anche "pratica commerciale") si intende "qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori". Giova ricordare che per "consumatore" si intende "la persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta".
Il Codice stabilisce che la pratica commerciale è scorretta se è contraria alla diligenza professionale ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori. Il giudizio di liceità (correttezza o meno della pratica) si concentra espressamente sul "consumatore medio", da intendersi come figura astratta di "consumatore ragionevolmente informato e tendenzialmente avveduto". La rilevanza di questa figura astratta consente, da un lato, di escludere che il diritto europeo intenda proteggere ogni potenziale acquirente, anche il più distratto o ignorante; dall'altro, impone all'operatore di prendere in carico le aspettative per così dire "legittime" e si traduce nel doveroso rispetto delle regole di diligenza rispetto alle circostanze del caso: è di tutta evidenza, ad esempio, che vi siano profonde differenze tra una pubblicità di integratori alimentari rivolta a una categoria con deficit metabolici, e una campagna promozionale di comuni biscotti frollini.
La diligenza professionale viene definita genericamente come "il normale grado della speciale competenza ed attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti del consumatore rispetto a pratiche di mercato oneste e/o al principio di buona fede nel settore di attività del professionista". È oramai acquisizione anche della giurisprudenza che "le norme in materia di contrasto alle pratiche commerciali sleali richiedono ai "professionisti" l'adozione di modelli di comportamento desumibili dal rispetto di eventuali norme poste a presidio dello specifico settore in cui opera l'agente, nonché dagli elevati standard di diligenza tipici di quel settore di attività e dalla finalità di tutela perseguita dal Codice, purché, ovviamente, siffatte condotte siano da loro concretamente esigibili" .
Nella nozione di pratica commerciale rientrano anche i messaggi (post) diffusi dagli influencers sembrano idonei a rientrare nella nozione in oggetto. Il fenomeno fa riferimento a messaggi diffusi attraverso i social media da personaggi in grado di influenzare i gusti del pubblico, senza tuttavia rappresentare, in modo chiaro e trasparente, il carattere promozionale del messaggio e la finalità pubblicitaria della comunicazione. In relazione a tale strategia comunicazionale, AGCM, nel periodo 2017-2018, ha esercitato interventi di c.d. moral suasion, consistenti in inviti rivolti ad influencers e titolari dei marchi, coi quali si è ricordato che la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile come tale, affinché l'intento commerciale di una comunicazione sia percepibile dal consumatore. Il divieto di pubblicità occulta, che ha portata generale, trova applicazione anche con riferimento alle comunicazioni diffuse tramite i social network, non potendo gli influencers lasciar credere di agire in modo spontaneo e disinteressato se, in realtà, stanno promuovendo un brand. Avvertenze circa la presenza di contenuti pubblicitari nei post pubblicati sul profilo Instagram, quali #ADV o #advertising, #pubblicità oppure, nel caso di fornitura del bene da parte del brand ancorché a titolo gratuito, #prodottofornitoda costituiscono buone prassi da tenere ferme.
Controverso è invece il caso di articoli redazionali che possono astrattamente rientrare nel campo di applicazione a condizione, però, che "la finalità primaria e diretta sia la promozione e la vendita di beni e che tra l'autore dell'articolo e l'impresa coinvolta vi sia un rapporto di committenza" . Mancando queste condizioni, si ricadrebbe nel giornalismo di informazione, rispondente ad autonome scelte redazionali della testata giornalistica e all'interesse dei lettori a ricevere informazioni anche su dati e fatti commerciali che interessano imprese note nel panorama nazionale e, per tali ragioni, non rientrante nell'ambito di applicazione del Codice del Consumo.
Nell'ambito della disciplina del Codice del consumo, le pratiche commerciali scorrette sono distinte in ingannevoli (artt. 21-23) e aggressive (artt. 24-26). È considerata azione ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni false o che induce o è idonea a indurre il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Ad esempio una comunicazione che ingeneri confusione con i prodotti, i marchi, la denominazione sociale e altri segni distintivi di un concorrente, ivi compresa la pubblicità comparativa illecita; anche il mancato rispetto da parte del professionista degli impegni contenuti nei codici di condotta sottoscritti costituisce pratica commerciale scorretta.
All'interno del Codice, vi è un elenco di azioni in ogni caso ingannevoli, tra queste vale richiamare le seguenti: affermazione non rispondente al vero di essere firmatario di un codice di condotta, si pensi a codici etici o a quelli in materia ambientale o di sicurezza sul posto di lavoro; sostenere, contrariamente al vero, che un prodotto ha la capacità di curare malattie, disfunzioni o malformazioni; esibizione di un marchio di fiducia, un marchio di qualità o un marchio equivalente senza aver ottenuto la necessaria autorizzazione; asserire, contrariamente al vero, che un professionista, le sue pratiche commerciali o un suo prodotto sono stati autorizzati, accettati o approvati, da un organismo pubblico o privato o che sono state rispettate le condizioni dell'autorizzazione, dell'accettazione o dell'approvazione ricevuta, divieto questo che ha delle affinità con la proibizione di accampare ruolo nel controllo o di vigilanza su una denominazione protetta su incarico del Ministero .
La repressione delle pratiche commerciali è affidata all'AGCM che può avviare i procedimenti anche d'ufficio, ossia senza attendere segnalazioni esterne. Ha poteri investigativi, che comprendono la possibilità di accedere a qualsiasi documento pertinente, di richiedere a chiunque informazioni e documenti pertinenti con la facoltà di sanzionare l'eventuale rifiuto o la trasmissione di informazioni e documenti non veritieri, di effettuare ispezioni, di avvalersi della Guardia di finanza, di disporre perizie. Una volta accertata la violazione l'Autorità può inibirne la continuazione, disporre la pubblicazione di dichiarazioni rettificative a spese dell'impresa responsabile e irrogare una sanzione pecuniaria da 5.000 a 500.000 euro.
Daniele Pisanello, avvocato cassazionista, Ufficio Legale Ass.O.Cert.Bio
PianetaPSR numero 97 dicembre 2020