La XII edizione del Festival della Soft Economy, organizzata da Fondazione Symbola e tenutasi a Treia (MC) dal 10 al 12 ottobre, è stata dedicata al fenomeno dello spopolamento delle aree interne e montane, organizzando delle sessioni di lavoro attorno a quei fattori e ambiti che possono favorire, se non l'inversione, almeno il ridimensionamento di tale fenomeno. Nella sessione "Civitas Future", tenutasi nella prima mattinata dei lavori, ci si è interrogati sul futuro delle comunità territoriali, analizzando le caratteristiche e le dinamiche delle popolazioni locali e del peso e ruolo che assumono i cosiddetti "nuovi abitanti".
Fra i nuovi abitanti delle aree rurali rientrano anche i migranti stranieri. Essi sono espressione di un universo complesso e variegato, difficile da definire e, quindi, da circoscrivere, che si trova in uno status di partenza spesso molto più fragile rispetto ad altri target di potenziali nuovi abitanti.
Si tratta, generalmente, di soggetti mediamente giovani, appartenenti a Paesi ed etnie diversi, con un debole (se non inesistente) radicamento territoriale "italiano", di valori culturali differenti, portatori di un progetto di vita, costruito su un bagaglio di competenze ed esperienze, quasi sempre, tra l'altro, ignorato. Progetto di vita interrotto dal viaggio che hanno intrapreso ma mai non abbandonato del tutto.
L'entrata in scena di questi soggetti, con caratteristiche specifiche, complica ancora di più le interpretazioni degli scenari futuri delle aree rurali, in quanto il loro arrivo ha un impatto sul vecchio ordine sociale; ordine che risulta essere sempre meno popolato, più composito ed eterogeneo e in affanno a governare la vita collettiva (Cersosimo D., Nisticò R., 2021).
Il loro arrivo, pur se ancora allo stato embrionale - non parliamo ancora di grandi numeri, ma di tendenze - apre a nuovi assetti, con conseguenze difficili da prevedere; crea discontinuità (non necessariamente rottura) nelle comunità, e rende ancora più incerta la capacità di prevedere le trasformazioni e le tendenze al mutamento in corso. Ciò determina la necessità di adottare nuovi paradigmi per leggere i cambiamenti, che si facciano carico non solo delle visioni degli "italici" ma anche di questi nuovi abitanti.
Si accennava prima a tendenze in atto. Se concentriamo la nostra attenzione sulle aree più interne, quelle collinari e montane (le cosiddette aree c) e d) della programmazione dello sviluppo rurale), i dati ISTAT sulla popolazione 2010-2023, ci dicono che, complessivamente, per queste due aree la popolazione straniera è aumentata di circa il 22%, a fronte di una diminuzione del 6% di quella locale.
Tradotto in abitanti, su una popolazione locale di circa 25 milioni di persone, circa 1,7 sono stranieri.
Se ci soffermiamo sul settore primario, i dati INPS 2022 relativi alle unità lavorative occupate in agricoltura indicano che del milione di lavoratori agricoli censiti, 385 mila sono stranieri, di cui il 50% lavora nell'agricoltura delle aree rurali collinari e montane. Uno sguardo al loro interno ci dice ancora che dei circa 200 mila lavoratori agricoli stranieri censiti in queste aree, ben il 95% è a tempo determinato (stagionali). Sono solo 10 mila i lavoratori stranieri che hanno una posizione lavorativa a tempo indeterminato in agricoltura (contro i circa 50.mila lavoratori italiani), posizione che ha permesso loro, si suppone, di pianificare una permanenza stabile, di medio-lungo periodo in loco.
Questi numeri, che danno conto soltanto delle posizioni lavorative «regolarizzate», ci dicono che la presenza dei migranti stranieri nell'agricoltura collinare e montana sta assumendo un peso sempre più importante e la loro presenza, registrata ormai da tempo, più non rappresenta un fenomeno estemporaneo, ma va interpretata, ormai, come una delle componenti strutturali della manodopera agricola e, in quanto tale, va approfondita e affrontata con una visione di lungo periodo.
I migranti arrivano perché sono alla ricerca di lavoro, ma è anche vero che il sistema economico rurale (quello agro-pastorale nel nostro caso) ha bisogno di loro; bisogno che diventa urgente, concentrato e ciclico nelle zone ad agricoltura intensiva, praticata anche nelle aree montane e collinari (ad esempio, melicoltura, pataticoltura, olivicoltura, viticoltura).
Se partiamo da questo presupposto, per avviare - consolidare - dei percorsi di insediamento stabile di questa parte di manodopera è necessario tener conto nelle analisi territoriali anche dei loro flussi e abbattere alcuni stereotipi che condizionano la visione che si ha del loro arrivo.
In primo luogo, va superata l'immagine stereotipata del migrante straniero, immagine che comprime in una sola figura un insieme composito di caratteristiche legate, ad esempio, al luogo di provenienza, al progetto di vita legato alla partenza, allo status giuridico, alla condizione familiare, al genere (Corrado A., Perrotta D., 2012). Questo sforzo è necessario per andare oltre l'idea che i migranti siano tutti uguali, disponibili a fare qualsiasi cosa (tabula rasa del loro vissuto e delle loro competenze già acquisite), a poterli/farli spostare da un luogo all'altro, a usarli per "riempire i nostri vuoti" lavorativi, residenziali, di cura.
In realtà, per la gran parte dei migranti le aree rurali non rappresentano la loro prima scelta in quanto esse, di per sé, non esercitano una grande attrattiva. I migranti spingono, normalmente, verso le grandi città (possibilmente nordeuropee dove risiedono già da tempo parenti, gruppi di connazionali), considerate ancora, anche per loro, "miticamente come il luogo di mille occasioni di miglioramento personale". (Castelnovi P., 2024)
Lo scarso appeal esercitato dalle aree rurali interne sui migranti è rafforzato anche dalla stagionalità e discontinuità dell'occupazione offerta. L'agricoltura è vista come porta di ingresso nel mercato del lavoro e che, solo se si presentano le condizioni giuste, si può trasformare in un'occasione di insediamento stabile.
La seconda considerazione riguarda la molteplicità delle dinamiche che attraversano i flussi migratori e che influenzano la scelta o meno di rimanere in loco. Ad esempio, pensiamo ai migranti che considerano l'arrivo nel nostro Paese soltanto come una delle tappe del loro percorso e che per periodi di tempo medio-brevi sono ospitati presso le strutture di accoglienza. A tal proposito, come riportato nel Rapporto annuale della Rete SAI, circa il 75% dei Comuni interessati da progetti di accoglienza, è localizzato nelle aree rurali collinari e montane. Questo vuol dire che degli 883 progetti di accoglienza attivi nel 2023, che si sono fatti carico di 55 mila beneficiari, una buona parte è stata realizzata nelle aree di nostro interesse (Cittalia, 2024). Non sembra che il soggiorno, però, abbia spinto i migranti interessati dai progetti a prendere in considerazione una permanenza stabile in loco.
E ciò per le ragioni di cui parlavamo sopra.
Ci troviamo, di fatto, a percorsi migratori differenziati che richiamano fabbisogni differenti.
Ma concentrare l'attenzione solo sulle opportunità occupazionali (dimensione economica) rende incompleta l'analisi dei flussi migratori nelle aree rurali. È necessario spostare l'attenzione anche sulle altre sfere che favoriscono l'insediamento di medio e lungo periodo di questa tipologia di abitanti (dimensione sociale). Esse riguardano sostanzialmente (Zumpano C., Gaudio F., Valentino G., 2024) tre dimensioni, di seguito elencate.
L'alloggio. Le aree rurali dispongono di un patrimonio abitativo locale disponibile sulla carta, ma in realtà spesso oggetto di abbandono e quindi fatiscente e, se idoneo, costoso e accaparrato da altri utenti esterni più facoltosi (leggi turisti).
Il sistema dei trasporti locali e la sua capacità di collegare i luoghi di lavoro con i luoghi di vita (le aziende agricole sono collocate fuori dai centri abitati).
I servizi di welfare, compresi quelli legati alla cittadinanza e alla cura, di cui i migranti che non hanno radici territoriali locali, hanno bisogno per costruire la propria identità di cittadino sul posto.
Ma anche di fronte alle garanzie non si avrà mai la certezza che il lavoratore straniero decida di stabilirsi nella comunità locale. Quello che si può fare è, appunto, impegnarsi per rendere più allettante l'offerta di permanenza in loco, caricandola di interventi volti non solo a garantire un lavoro dignitoso e una retribuzione equa ma anche un percorso di crescita professionale e di inclusione sociale che coinvolga anche i loro nuclei familiari.
Catia Zumpano
CREA - Centro Politiche e Bioeconomia
PianetaPSR numero 140 dicembre 2024