Negli ultimi dieci anni il mercato agroalimentare mondiale è cresciuto moltissimo: in termini nominali, si è passati dal valore di 522,6 a quello di 1182 miliardi di euro. A beneficiare di questa crescita, sono oggi soprattutto quei Paesi capaci di generare elevate economie di scala, attraverso produzioni standardizzate e ad alta resa. La popolazione mondiale in crescita, del resto, ha prima di tutto bisogno di prodotti alimentari di prima necessità, e ne ha bisogno in quantità sempre maggiore. In questo contesto, la posizione del made in Italy è speculare al suo modello agroalimentare, fatto di una limitata disponibilità di commodities di base ma caratterizzato da elevati standard qualitativi dei prodotti finiti. Ed è proprio grazie alla qualità che in questa evoluzione della geografia del commercio internazionale l'Italia ha saputo ritagliarsi il suo spazio.
Una realtà che i più recenti dati sull'export confermano con aumenti a due cifre, ma ancora troppo focalizzata sui mercati tradizionali, come Europa e Stati Uniti. Per il futuro, quindi, molto dipenderà da quanto i nostri operatori, ma anche il sistema Paese, riusciranno a trasformare in nuove quote di mercato la grande immagine di cui il made in Italy gode anche nei mercati in espansione del cosiddetto BRIC (Brasile, Russia, India, Cina).
Queste alcune delle conclusioni a cui giunge il recente Rapporto "I.T.A.L.I.A - Geografie del nuovo made in Italy "di Symbola-Unioncamere-Fondazione Edison", che focalizza l'attenzione sul rapporto fra l'export agroalimentare e quello di altri settori, andando poi più in profondità ad analizzare le performance dei settori produttivi più strategici, tra cui le principali produzioni agroalimentari.
Partiamo dallo scenario: la quota dell'export agroalimentare italiano in dieci anni (2002-2011) si è mantenuta costante attorno al 3,3%, scendendo al 3% solo nel 2011, stante anche l'ulteriore peggioramento congiunturale dell'economia. Una contrazione insomma c'è stata, anche inferiore al dato generale dell'economia italiana, che accusa un flessione dal 3,6 al 2,7%. A perdere di più, all'interno della catena agroalimentare, è stata la componente agricola, che nello stesso periodo analizzato è scesa dal 2,1 all'14% , principalmente a causa della "sofferenza" delle produzioni di base.
Non potendo l'Italia competere nell'export internazionale sul campo delle materie prime agricole (come mais, grano, soia ecc.), i prodotti che hanno tenuta alta la bandiera tricolore in questi anni sono stati quelli di punta, quasi sempre ad alta specializzazione, le eccellenze. Questi prodotti hanno mantenuto o aumentato il prezzo di vendita e anche la quota di mercato, un risultato enfatizzato dal fatto che la domanda globale, concentratasi sui prodotti di prima necessità o comunque di fascia più bassa, sia quasi sempre diminuita.
Performance competitive di alcune delle principali produzioni agroalimentari italiane
Andiamo a vedere quali sono questi prodotti. Il Rapporto Symbola Unioncamere prende in esame settanta voci, enucleate in base alla classificazione produttiva internazionale HS (Harmonized system).
Cominciamo col dire che in generale l'Italia non è messa assolutamente male: si colloca in undicesima posizione come valore agroalimentare complessivamente esportato (quasi 30 miliardi di euro). In ben 13 prodotti, inoltre, il made in Italy ha una posizione di leadership (è il caso ad esempio della pasta, dei pomodori, del prosciutto crudo, delle mele, dei formaggi grattugiati, ecc.).
Sei prodotti su 10 dei settanta elencati mostrano per l'Italia una dinamica decennale della quota di mercato favorevole. Se prendiamo poi in considerazione i 39 prodotti in cui l'Italia è prima, seconda o terza nell'export, si vede che solo in sei casi gli esportatori italiani hanno abbassato il prezzo medio di vendita rispetto agli altri Paesi; ma di questi sei tre (prosciutti, salami e caffè torrefatto) il prezzo è comunque risultato superiore alla media europea.
Alcuni esempi aiutano a comprendere meglio le performance italiane: le cosiddette "carni di suini salate, secche o in salamoia" (che comprendono, per intenderci, soprattutto prosciutti crudi e speck) vedono la loro quota mondiale aumentare nei dieci anni considerati dal 17,5 al 21,9%. Nel contempo, il loro valore medio di vendita unitaria è sceso di pochissimo ed è comunque di gran lunga superiore alla media europea ( è passato da 238,5 a 233,2 , fatta 100 la media Ue).
Così i vini, passati da una quota del 19,8% ad una del 21,2%, e il cui valore medio di vendita è anche qui aumentato: da 72,8 a 88,2 fatta 100 la media Ue. Allo stesso modo i formaggi: la quota dei non fermentati passa dall'8% al 9,2% e il loro prezzo da 122 a 149 su 100; nei latticini la crescita è ancora maggiore (dall'8,3 all'11,4) così come per i grattugiati (da 0,5 a 1,1 e da 146,1 a 190,9 di valore medio).
Sono solo alcuni esempi, ma rientrano in questa casistica anche gli ortaggi, freschi o refrigerati, i pomodori, preparati o conservati, la pasta, salsicce salami e simili, le mele, i kiwi e le pesche ecc. Vi sono poi le vere e proprie eccellenze, come ad esempio le grandi "firme Dop" che per l'Italia significano un valore di oltre 2 miliardi sui 30 dell'export.
Insomma, su questi prodotti l'Italia sta giocando la partita della competitività. Ma in futuro? Non potendo, per evidenti ragioni storiche e geografiche, scendere sul terreno dei grandi produttori su larga scala, conviene puntare ancora sul nostro cavallo vincente, la qualità. Ma allargando il mercato: fondamentale l'espansione verso i mercati dei cosiddetti Paesi BRIC (Brasile, Russi, India e Cina), dove però occorre creare dei consumatori consapevoli. Qualcosa si comincia a vedere proprio, ad esempio, con l'affacciarsi della middle class cinese. Nel gigante asiatico si è registrato un aumento dell'84% delle vendite di pasta nei primi 9 mesi del 2012; del 28% dell'olio e del 21% del vino. Sono triplicati gli acquisti di Grana Padano e Parmigiano Reggiano, e quintuplicati quelli di prosciutto crudo.
Il percorso è però accidentato, a causa dell'annoso problema della contraffazione, della pirateria e del cosiddetto "italian sounding", ovvero la vendita di prodotti che alludono alla tipicità italiana, senza tuttavia rappresentarne le caratteristiche di origine e organolettiche. Solo quest'ultimo fenomeno si stima sottragga alle nostre esportazioni agroalimentari 60 miliardi di euro annui, il doppio delle vendite all'estero delle imprese italiane. Infine, c'è il problema del passaggio di alcune aziende italiane storiche in mani straniere (ultima la Pernigotti), per un giro d'affari stimato in oltre 10 miliardi di euro. Un campanello d'allarme da non sottovalutare.
Andrea Festuccia
PianetaPSR numero 23 - luglio/agosto 2013