In Italia quello che muove più il mercato è il mirtillo nero (con un valore commerciale annuo di 15 milioni di euro), ma il più "prezioso" è lo zafferano (1.170 euro al Kg, con un valore commerciale di quasi 10 milioni di euro). Parliamo di piante officinali, settore che coinvolge, oltre alle aziende produttrici, industrie come quella alimentare, farmaceutica, fitoterapica o antiparassitaria e che cerca di uscire, con qualche difficoltà, dalla fatidica "nicchia", guardando anche all'evoluzione della domanda dei mercati esteri (medicina tradizionale in India e Cina) e alla possibilità di introdurre nella coltivazione italiana specie che oggi vengono importate ma che sono coltivabili anche sul nostro territorio.
Innanzitutto, è bene compilare la carta d'identità di quelle che in Italia, secondo una legge datata 1931, vengono definite "piante officinali": con questo nome, esclusivamente italiano e che deriva dal latino officina (il laboratorio dove le piante venivano sottoposte alle varie lavorazioni), si identifica una serie molto eterogenea da un punto di vista agronomico, di specie vegetali, che a sua volta comprende, sulla base delle principali destinazioni d'uso, le piante medicinali (es: passiflora, vite rossa), aromatiche (es: es: origano, rosmarino) e da profumo (es: bergamotto, lavanda).
E di piante officinali si è parlato, questa estate, a Roma, nel corso di un workshop organizzato congiuntamente dal Ministero delle politiche agricole, da Ismea, e dal Ministero della Salute, per fare il punto sullo stato delle aziende che le coltivano, delle prospettive future e della legislazione vigente. All'origine del lavoro, c'è la costituzione presso il Ministero delle Politiche Agricole e Forestali di un Tavolo tecnico di filiera per le piante officinali, nell'ambito del quale si è deciso di promuovere la creazione di un Osservatorio economico per il settore.
I dati statistici più aggiornati indicano, anche in questo settore, una profonda ristrutturazione del sistema produttivo: meno aziende, ma di maggiori dimensioni. Raffrontando i due censimenti del 2000 e del 2010, emerge è che a fronte di una contrazione delle aziende (4.134 nel 2000, ridotte a 2.940 nel 2010), la superficie coltivata è aumentata di ben il 216, 3%: così attualmente la dimensione media di una azienda che coltiva piante officinali è di circa di 18 ha, ben più alta dunque della media aziendale italiana. Inoltre, il trend degli ultimi anni è crescente sia per la superficie che per il numero di aziende (rispettivamente del 63% e 33% nei confronti del 2007). Insomma, stiamo parlando di una maggiore specializzazione produttiva, anche perché ad essere "crollate", sono state soprattutto le microaziende, sotto un ettaro di superficie, mentre quelle sopra i due ettari sono aumentate.
Analizzando la bilancia commerciale, nel 2012 l'import è stato di 1.052 milioni di euro, mentre l'export è pari a 470 milioni di euro. In riferimento ai volumi, tra il 2000 e il 2012, gli acquisti dall'estero sono passati da 120.000 a 165.000 tonnellate, mentre l'export da 45.000 a 85.000 tonnellate. L'Italia importa soprattutto "sostanze odorifere per l'industria alimentare e bevande" (30%) e per quella non alimentare (23%) e poi succhi ed estratti vegetali (12%). Esporta in primis succhi ed estratti vegetali (27%), oli essenziali (19%) e sostanze odorifere per industria alimentare e bevande (14%). Seguono sostanze coloranti, spezie ed aromatiche e estratti per concia.
Le principali specie per valore di mercato utilizzate in Italia sono (oltre alle già citate mirtillo nero e zafferano) vite rossa, ginkgo biloba, cardo mariano, passiflora. Di queste ultime, però, solo la passiflora è coltivata in quantità sufficiente a soddisfare il fabbisogno dell'industria di lavorazione nazionale; per le altre varità sia pure con percntauli molto diversificate, il buco produttivo è coperto dal ricorso alle importazione.
E il futuro? Dal workshop sono emersi alcuni punti fermi. Innanzitutto la necessità di incorporare alcune delle attività di trasformazione, accorciando la filiera e puntando, ad esempio, alla produzione di estratti, oli essenziali o integratori. Poi, è necessario riflettere sul fatto che molte delle specie che hanno un posto rilevante nell'import (es: timo, alloro, bacche di ginepro), sono tranquillamente coltivabili in Italia, ma non hanno ancora economie produttive di scala. Per quanto riguarda le opportunità commerciali, ci sono ampi spazi per coloro che riusciranno a intercettare la crescente domanda proveniente dalla medicina tradizionale cinese e ayurvedica. Così come tendenze, mode e stili di vita hanno negli ultimi anni accresciuto il valore di mercato degli integratori alimentari, che costituiscono un'altra fetta di mercato in continua espansione. Naturalmente, c'è anche da risolvere il problema della struttura commerciale, che deve essere adeguata al tipo di utilizzatore.
E' necessaria poi una revisione della normativa vigente in materia di erboristeria, che è invece ancora sostanzialmente dettata dalla Legge 6 gennaio 1931, n. 99 e dall'elenco delle piante officinali contenuto nel Regio Decreto 26 maggio 1932, n. 772. Fra i punti più controversi, secondo le associazioni di agricoltori, l'obbligo - stando al decreto - per chi coltiva piante officinali, di avere un diploma da erborista o di avvalersi di un erborista. Infine, fra i temi su cui il tavolo ministeriale porrà l'attenzione, l'eventuale realizzazione di centri di prima trasformazione per migliorare le economie di scala, la creazione di un marchio nazionale e l'incentivazione all'ingresso di giovani con appositi corsi di formazione.
Andrea Festuccia
PianetaPSR numero 24 settembre 2013